Alberto Rondalli


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Agadah

foto Buscarino


Che significa raccontare? Raccontare non è qualcosa di lineare.
Se vogliamo narrare, dobbiamo interrompere la nostra storia: dare ascolto a una seconda, a una terza, a una quarta, a una quinta voce, dentro la nostra voce fittizia: interromperci continuamente, perché ora l'ebreo errante ora il cabalista (questi grandi bugiardi) vogliono essere ascoltati; e intrecciano ogni filo con tutti gli altri fili del mondo. Nessuna attività umana è più interminabile.
Il Male assoluto" di Pietro Citati





Agadah


Sceneggiatura, regia e montaggio: Alberto Rondalli
Fotografia: Claudio Collepiccolo
Scenografia: Francesco Bronzi
Costumi: Nicoletta Taranta
Musiche originali: Alessandro Sironi

tratto da
"Il manoscritto ritrovato a Saragozza"
Jan Potocki

Interpreti principali


Nahuel Pérez Biscayart: Alfonso Van Worden
Pilar López de Ayal: Rebecca
Jordi Mollà: Potocki / Diego Hervas
Caterina Murino: Principessa M.S.
Alessandro Haber: Cornandez
Umberto Orsini: Belial
Alessio Boni: Pietro Di Oria
Valentina Cervi: Ines
Ivan Franek: Thibaud
Marco Foschi: Blas Hervas
Marta Manduca: Emina
Flavio Bucci: Vecchio Moreno
Antonio Buil Puejo: Trivulzio
Giulia Bertinelli: Zibbidè
Riccardo Bocci: Velasquez
Federica Rosellini: Dariolette

Prodotto da Pino Rabolini
Ra.Mo spa Milano



SINOSSI

Siamo nel 1815, il conte Potocki sta lavorando al suo romanzo nell’elegante dimora in cui vive. Maggio 1734, Alfonso di van Worden, giovane ufficiale Vallone al servizio di Re Carlo, ha ricevuto l’ordine di raggiungere il suo reggimento a Napoli nel più breve tempo possibile. Nonostante Lopez, suo fedele servitore, cerchi di dissuaderlo dall’attraversare l’altopiano delle Murgie, perché infestato da spettri e demoni inquietanti, si mette ugualmente in cammino. In un intreccio fantastico, tra sogno e realtà, che ricorda il Decamerone e le Mille e una Notte, Alfonso compirà un percorso iniziatico, durante dieci lunghe giornate, tra allucinazioni e magia in caverne misteriose, locande malfamate, amori scabrosi e apparizioni diaboliche. Ambientato all’indomani della Battaglia di Bitonto, che portò il Regno di Napoli sotto il dominio di Carlo di Borbone, il film, in un crescendo epico e maestoso, intreccia, tra sogno e realtà, il destino di due uomini uniti in modo indissolubile attraverso storie tra loro concatenate in una realtà popolata da briganti, zingari, forche, cabalisti e fantasmi. Alfonso non avrà mai certezza se la sua esperienza sia stata reale o solo frutto dell’immaginazione.

“Se la Storia fallisce, il Racconto trionfa sul fallimento di ogni cosa umana, ed è l'unica realtà dell'universo.”
(Pietro Citati in “Potocki, lo scrittore che sfidò l'universo”)



PREMI:
*Best Film, First Hermetic International Film Festiva 2018
*Best Feature Film, Mediterannean Film Festival 2018
*Best Fantasy Film, European Cinematography Award 2018
*Best Actor, Seattle Latino Film Festival
*Best Fantasy Feature, *Best Lead Actor, *Best Director,
*Best Supporting Actor, *Best Art Direction,
*Best Cinematography, SFAAF 2018
*Migliori costumi, Nastri d'argento 2018
* Best Sound Design,* Best Actor, Sose International Film Festival 2018
*Candidato Migliori Costumi, David di Donatello 2018
*Best Art Direction, *Best Soundtrack, Phenomena International Film Festival 2018
*Miglior Scenografia, La Chioma di Berenice 2018
*Best Feature Film, Near Nazareth Festival 2018
*Official Selection, Madeira Fantasti Film Festival 2018
*Official Finalist, Mexico International Film Festival 2018



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Gianni Canova (We Love Cinema)
I film, quasi sempre, raccontano una storia. Cercano di raccontare una storia. Quelli particolarmente coraggiosi provano a intrecciare più storie. O tentano di non raccontarne nessuna. Agadah di Alberto Rondalli fa una cosa completamente diversa: racconta il raccontare. Trasforma in narrazione l’atto stesso del narrare. Perché il narrare è uno dei bisogni primari di ogni essere umano: assieme al mangiare, al bere, al dormire, al respirare, al fare l’amore, ognuno di noi ha il bisogno insopprimibile di raccontarsi, di nutrirsi di storie, o di nutrire gli altri con le storie della propria vita. Eppure, mentre tutti gli altri bisogni vengono spesso narrativizzati (quanti film sul mangiare, sul bere, sull’amare…) il bisogno di narrare resta spesso sullo sfondo. Inenarrabile? Affatto. Agadah – che significa, appunto, narrare – lo dimostra. La sceneggiatura di Alberto Rondalli (che è anche il regista e il montatore del film) prende spunto da un’opera-mondo, complessa e labirintica, come Il manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki: una sorta di “decamerone nero” scritto in francese da un autore polacco ai primi dell’Ottocento, e costruito con un meccanismo a scatole cinesi per cui una storia ne contiene un’altra, che ne contiene un’altra ancora, la quale a sua volta fa da cornice a un racconto ulteriore, in un gioco di matrioske narrative praticamente infinito.
Le storie che sgorgano l’una dall’altra, introdotte ogni volta da un personaggio della storia precedente che diventa narratore della successiva, hanno ben poco di realistico: sono storie di streghe e di fantasmi, di cavalieri erranti e di banditi, di eremiti e inquisitori, di zingari e invasati, di cabalisti e di impiccati, ognuno dei quali sperimenta un genere e un registro diverso (di volta in volta il racconto nero, la ghost story, il fantasy, il picaresco, l’esotico, l’erotico, il comico, e così via). Il tutto suddiviso in 66 giornate, con un andamento narrativo fluviale ed impetuoso: davvero un’opera titanica, inafferrabile, pluristratificata.
Possibile portarla sullo schermo? Un maestro come Luis Buñuel ne fu tentato a lungo, ma poi abbandonò l’idea. Nel 1964 ci provò il polacco Wojciech Jerzy Has, ma con risultati solo in parte soddisfacenti. Ora è la volta di Rondalli, che affronta la sfida prendendosi tutto il tempo necessario (anni ed anni di lavoro…) e lavorando sul corpus del romanzo con passione e rigore. Rondalli sa che deve ridurre senza alterare. Tagliare senza strappare. Scartare per poi ricucire. Soprattutto sa che il film dovrà riuscire a trasmettere allo spettatore la sensazione di essere dentro un sogno, o in un gioco di specchi, dove i personaggi si riflettono l’uno nell’altro fino a scomparire. Le giornate da 66 diventano 10. Ma poi, sul filo del viaggio iniziatico del protagonista Alfonso van Worden, Rondalli incastona miraggi, visioni e maledizioni. Corteggia demoni e fantasmi, seduttrici e truffatori. Si mantiene su un registro prevalentemente realistico per raccontare il viaggio e adotta invece toni più decisamente fantasy per evocare i vari racconti dei narratori che il viaggiatore incontra sul suo cammino. Ne deriva un film strano e splendente come una pietra preziosa, lontano anni luce dai toni grigi e dimessi, piattamente quotidiani, di tanto cinema italiano: film-labirinto, film-cornucopia, film-caleidoscopio, Agadah può essere associato per analogia solo al folle e rapinoso Racconto dei racconti di Matteo Garrone: anche lì, come qui, un testo letterario di partenza che è una miniera inesauribile di storie (nel caso di Garrone, Lo cunto de li cunti di Basile), un gusto del narrare che non esita a inerpicarsi anche per i sentieri più ardui e scoscesi, un uso accorto del paesaggio italiano come location delle storie più inverosimili (Rondalli trasferisce i suoi racconti della Spagna all’altopiano della Murgia) e un titolo che in entrambi i casi (Agadah-Narrare, Il Racconto dei racconti) individua spudoratamente nel narrare, nei modi e nelle forme in cui è possibile raccontare una storia, il vero oggetto della narrazione.
Che meraviglia. Finalmente un film italiano che non si lascia mettere al collo il cappio del realismo ad ogni costo, e che ha il coraggio di spingere il nostro sguardo in altre direzioni. Può piacere o no, ma certo non gli si può negare il coraggio, la lungimiranza, l’ambizione. E il piacere di fare un cinema diverso da quello che dalle nostre parti siamo abituati a vedere.
Onore a Rondalli e al suo produttore Pino Rabolini. Un po’ meno a un sistema che stenta ad accogliere in un numero adeguato di sale un film così.


Foto di Philippe Antonello
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foto di Maurizio Buscarino
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Marco Cacioppo (Cineforum)

Oltre a essere un libero adattamento da Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki, Agadah è un film su e che mette in scena l’atto e il piacere del raccontare. Lo sottolinea il titolo stesso, mutuato dalla terminologia cabalistica per evocare un’idea di narrazione nella sua accezione più ampia, ovvero comprendente qualsiasi tipologia e forma di racconto. Per sua stessa ammissione, il regista Alberto Rondalli ha voluto prendere le distanze tanto dal testo originale quanto dalla trasposizione realizzata nel 1965 dal Maestro del surrealismo polacco Wojciech Has, da cui differisce sostanzialmente per la selezione dei blocchi narrativi, per la caratterizzazione di alcuni personaggi (tra cui il protagonista Alfonso Van Worden, reso giovane e imberbe come nel romanzo) e, soprattutto, per l’inserimento programmatico di Jan Potocki all’interno del tessuto narrativo, mettendolo nelle condizioni di interagire con i personaggi da lui stesso creati. Una trovata, questa, fonte di corrispondenze acute ed efficaci come il ritrovamento nel letto da parte di Alfonso della teiera utilizzata dallo scrittore per ricavare il proiettile con cui si sarebbe suicidato nel 1815, o lo sparo che pone fine alla vita di Potocki e che riecheggia anche nella finzione, raggiungendo il personaggio di Diego Hervas, suo alter ego. D’altra parte, come Potocki ambiva con il Manoscritto trovato a Saragozza a comporre il più grande e ineguagliabile romanzo enciclopedico di sempre, così Diego Hervas compila cento volumi entro cui custodire tutto lo scibile umano, scontrandosi alla fine con l’impenetrabilità dell’occulto. E, per estensione, spetta al regista intraprendere la missione impossibile di sviscerare l’essenza di un romanzo di per sé intraducibile. Come già Matteo Garrone con Il racconto dei racconti, anche Alberto Rondalli prende le distanze dalle convenzioni sociali e realiste del cinema contemporaneo italiano per abbracciare il fantastico, avvalendosi del potere dell’analogia per dialogare con lo spettatore e, quindi, con il nostro presente. Detto ciò, Agadah si spinge ancora oltre, evitando la struttura antologica e abbastanza schematica del film di Garrone, ma portando avanti un gioco di scatole cinesi, matrioske e virtuosismi drammaturgici che sono propri del capolavoro di Potocki ,e che Rondalli, con l’umiltà di chi riconosce i propri limiti di fronte a un’opera così assoluta, gestisce abilmente con picchi di visionarietà davvero encomiabili (per esempio, l’episodio dello sposalizio tra scheletri o quello dell’incontro con la giovane vampira). In questo senso Agadah è una grande e sorprendente cattedrale barocca in cui convivono armoniosamente generi e suggestioni molto diversi tra loro (gotico, racconto storico e picaresco, eros e horror), ma tenuti insieme da una leggera vena ironica che sdrammatizza e incanta, proprio come nelle grandi fiabe della nostra tradizione. Un’evidente cambio di rotta, quindi, rispetto alle rarefazioni e sospensioni del Derviscio, ipnotico film dal libro di Meša Selimovic con cui Rondalli si era fatto notare nell’ormai lontano 2001, in favore di un linguaggio estremamente elaborato perseguito dal cineasta lecchese con metodo radicale e iconoclasta: scavalcamenti di campo estremi, il tradimento delle regole della continuità, piani sequenza a forma di “8” intorno a due personaggi, movimenti di macchina continui e carrelli di 30-40 metri. Insomma, sicuramente non facile da avvicinare, Agadah è uno dei film italiani più innovativi e fuori dagli schemi non solo di questo 2017, ma degli ultimi anni. Sarebbe un peccato che passasse inosservato.


Claudio Trionfera (Panorama)
Da Bitonto a Napoli. Ecco il cinema italiano che va da un’altra parte seguendo itinerari sbilenchi e fuori mano. Càpita con Agadah (nelle sale dal 16 novembre, durata 131’) di Alberto Rondalli, 47enne cineasta di Lecco e una interessante carriera da esplorare a partire dai tre film precedenti (
Padre Pio da Pietrelcina, Il Derviscio, L’aria del lago) e ricordando regie teatrali, scuole e seminari – fra cinema e teatro – con Ermanno Olmi, Eugenio Barba e Krzysztof Kieslowski.Attività culturale teorica e largamente messa in pratica: sorprende meno, allora, che il film di oggi replichi all’esigenza di misurarsi, da parte di Rondalli, in un’impresa oggettivamente complessa come la (libera) trasposizione di Manoscritto trovato a Saragozza del conte polacco Jan Potocki, primo e unico romanzo da lui pubblicato e ben poco frequentato dal cinema proprio per la sua architettura densa e macchinosa. Se ne ricorda un solo tentativo, peraltro riuscito, di Wojciech Jerzy Has nel 1964, nove anni prima che l’autore polacco dirigesse il magnifico La clessidra vincitore del Premio della giuria a Cannes. Rispetto al romanzo, dove il protagonista deve raggiungere Madrid attraversando la Sierra Morena affollata di spiriti, il film sposta adesso l’azione in Italia: senza modificare il nome del suo personaggio principale, Alfonso van Worden (Nahuel Perez Biscayart) il quale, appena nominato ufficiale delle Guardie vallone al servizio di Re Carlo di Borbone, deve arrivare a Napoli passando per l’Alta Murgia dopo la battaglia di Bitonto che porta il Regno napoletano sotto lo scettro borbonico. Stesso destino, però. Spettri e visioni, anche qua, sono in agguato e nonostante gli avvisi del suo fido servitore, Alfonso s’avvia per i sentieri rupestri scomparendo ben presto alla vista assorbito da una dimensione arcana. E gli eventi si materializzano, trapassando in visionaria sequenza una “stazione” dopo l’altra, meglio, incastrata l’una nell’altra in un intrico ben poco descrivibile a livello narrativo ma certo da godere sul piano delle immagini e delle loro rocambolesche scorrerie sullo schermo. Si miscelano così cabala e sesso, magìa e diffusa presenza fantàsmica, attrazioni gitane e danze più o meno macabre dominate da una fantastica scena di nozze all’interno d’una chiesa affollata di scheletri tanto vivi e vibranti che non se ne vedevano di eguali dal leggendario hongkonghese Storia di fantasmi cinesi di Siu- Tung Ching, uscito giusto trent’anni fa e diventato cult. Alla fine il cavaliere, un po’ intronato e stupefatto, si ritrova al punto di partenza: col servitore che ne acclama la ricomparsa e con la scoperta che la sua peripezia onirica e pazza, durata dieci giorni nel mondo fantastico, si è svolta in realtà nello spazio d’una sola notte. Davvero elastica, a ripensare ai fatti che vi si sono appena succeduti e ai molti personaggi che passo dopo passo, tra le pieghe di un ottimo cast, hanno i volti di Caterina Murino, Alessandro Haber, Jordi Mollà, Umberto Orsini, Pilar López de Ayala, Alessio Boni, Valentina Cervi, Flavio Bucci, Riccardo Bocci e tanti altri. Che coraggio. Trovare un buco per un’opera così, sia a livello produttivo che distributivo nel muro del presente mercato cinematografico d’Italia, è un segnale di volontà intrepida e di forte vocazione al sostegno del cinema di qualità, quello che magari non appaga il box-office ma di sicuro contribuisce alla dignità culturale di tutto il comparto. Poi c’è il film in sé, che si sviluppa e si stende su una cospicua diversificazione di generi, riuscendo sempre a tener saldo e ad armonizzare stilisticamente – con modi surreali tra fantasy, horror, cappe spada e avventura - un racconto altrimenti destinato a scompaginarsi. Merito delle certezze di regìa, di uno studio accorto del testo e della sua intelligente trasformazione in fase di scrittura.



INTERVISTA AL REGISTA ALBERTO RONDALLI

Quando hai deciso di fare del Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocky un film?


Avevo il film nel cassetto dal 2000, da quando giravo Il Derviscio. All’epoca pensavo di riuscire a realizzarlo con un grosso produttore e avevo fatto anche i sopralluoghi in Spagna, poi tutto si è bloccato. La sceneggiatura era quindi già pronta da 15 anni, ma il progetto era talmente ambizioso, complesso e difficile da realizzare che ho dovuto metterlo costantemente da parte. L’occasione è arrivata quando ho incontrato Pino Rabolini, una persona amante delle sfide e desiderosa di cimentarsi in una nuova esperienza imprenditoriale e di vita.


Cosa ti ha affascinato di questo romanzo?


Il fatto che il Manoscritto sia un testo definitivo, una sorta di summa totale di tentativi da parte di uno scrittore di raccontare tutto il raccontabile compiendo così il massimo sforzo che una mente umana possa fare. Quando ho letto il romanzo, mi sono lasciato completamente catturare dalla forza della narrazione, dalla capacità di affabulare e di essere affabulato, e mi sono reso conto che il racconto, come sosteneva lo scrittore Pietro Citati nel suo libro Il Male assoluto, è l’unica cosa che può sopravvivere al caos della storia. La narrazione ci dà infatti l’illusione di mettere ordine agli eventi dell’esistenza e di dare loro un senso, ed è per questo che è l’attività più umana e necessaria che ha l’essere umano. Senza saremmo disperati, proprio come Potocki o il suo doppio, il personaggio di Diego Harvas: entrambi infatti hanno scelto il suicidio di fronte al fallimento del loro tentativo di comprendere e raccontare il mondo. In questa necessità della narrazione, risiede per me tutta la modernità de Il Manoscritto.


Perché hai scelto di intitolare il tuo film Agadah?


Un film non può mai essere l’esatta trasposizione di un’opera letteraria. C’è sempre un piccolo o grande tradimento nel passaggio, reso inevitabile dall'irriducibile diversità dei mezzi espressivi. E questo è ancor più vero per un’opera infinita come Il Manoscritto. Ho deciso così di denunciare subito questo tradimento, a partire dal titolo: Agadah, termine cabalistico che si può tradurre con “narrare”. A sua volta l'etimologia della parola narrare è “far conoscere raccontando” che, per me ripeto, è il senso più profondo del film.


Nel 1964 il regista polacco Wojciech Has ha fatto una trasposizione cinematografica de Il Manoscritto. Hai preso le distanze dal suo film o la sua opera ti ha ispirato?


Diversamente da Has ho scelto di raccontare alcuni episodi racchiusi in dieci giornate, mentre Has ha scelto le cosiddette “storie spagnole”, che sono molto divertenti e picaresche, ma del tutto diverse dalle mie. Ci accomuna solo la struttura del viaggio di Alfonso van Worden. Il mio Alfonso è un adolescente: Potocki lo descrive, “senza un pelo di barba”; l’Alfonso di Has è invece un uomo adulto, e questo a mio parere toglie al personaggio l'aspetto del viaggio iniziatico del giovane uomo. Ad ogni modo ho visto la pellicola di Has più volte e l’ho anche citata in Agadah: l’inquadratura delle mani congiunte
degli scheletri del padre e della madre di Alfonso quando si sposano sono il mio omaggio a questo regista.


L’edizione integrale del Manoscritto è suddivisa in 66 giornate e conta 700 pagine e un centinaio di storie. In che modo hai selezionato le sedici storie di Agadah?


Il Manoscritto è un romanzo su cui un regista potrebbe fare film tutta la vita senza riuscire a esaurirne tutte le storie. Ho scelto di raccontare la storia portante e poi quei racconti che mi sembravano spiegassero meglio sia il personaggio di Alfonso sia lo stesso Potocki, ovvero le vicende legate a Diego Hervas e a suo figlio, anche se l’autore è presente in ogni storia e, in trasparenza, è in tutti i suoi personaggi.


Il film ti è costato un grande lavoro di documentazione storica?


Sì ma in quindici anni ho avuto tutto il tempo di fare un lavoro accurato. Con la costumista e lo scenografo ho cercato di ricostruire in maniera quanto più realistica gli ambienti e i costumi. Avevo disegnato come sempre tutte le scene, ma questa volta mi sono dovuto anche adattare alle situazioni che si sono venute a creare, perché tante storie e diverse location hanno comportato anche molte variazioni.


A proposito di location, come mai hai deciso di girare in Italia?


Il Manoscritto è ambientato nella Serra Morena, ma la storia poteva essere benissimo adattata in Sicilia o in Puglia, perché sono terre che hanno subìto la dominazione borbonica e sono state anche loro attraversate da banditi, zingari, scuole cabalistiche. Alla fine abbiamo optato per la Puglia e la scelta è stata perfetta, perché alcune sue zone desertiche richiamano molto quelle della Spagna.


Come hai scelto l’attore che interpreta Alfonso e come avete lavorato insieme?


Avevo bisogno di un attore giovane o almeno che sembrasse tale, ma che fosse allo stesso tempo molto solido, perché occorre molta forza per sostenere la leggerezza di Alfonso. Nahuel è un grande attore, meticoloso e molto preparato, che in sole due settimane ha imparato ad andare a cavallo. Il suo, però, non è un personaggio semplice e all’inizio era disorientato. Per aiutarlo a restituire la leggerezza di Alfonso, gli ho suggerito di pensare a Charlot, mentre, ad esempio, per dargli qualche riferimento sulla gestualità di un uomo del ‘700 gli ho chiesto di imparare a ballare il Minuetto.


Per ricreare gli ambienti del film hai avuto dei riferimenti iconografici?


Sì. Ho lavorato nuovamente con il direttore della fotografia Claudio Collepiccolo proprio perché abbiamo un’intesa consolidata sul tipo di luce da usare e sui riferimenti pittorici da adottare. L’immagine dell’Oriente nel mio film non vuole essere filologicamente orientale ma direi orientalista ed è stata dedotta proprio da tanti quadri del ‘700 e ‘800 di pittori che hanno visitato l’Oriente o semplicemente l’hanno immaginato attraverso i loro occhi di occidentali. Certi tagli di luce sono caravaggeschi, altri sono più vicini all’olandese Jan Vermeer. In alcuni casi abbiamo utilizzato l’illuminazione naturale delle candele, facendo riferimento a un pittore come Georges De La Tour, oltre naturalmente a Kubrick che in questo è stato un maestro. E ancora, nelle scene più leggere ci siamo ispirati ai quadri di
Jean-Honoré Fragonard, per altre ancora abbiamo tratto ispirazione da Le tre età dell'uomo e la morte di Hans Baldung Grien. Ogni scena delle 16 storie di Agadah ha una suggestione pittorica.


E per gli scheletri, ti sei ispirato ad altri film?


No, mi hanno ispirato i lavori del fratello del pittore Fragonard, Honoré, e la sua serie di “scorticati”: cadaveri sezionati e imbalsamati in vere e proprie pose artistiche e finanche le mummie delle Catacombe dei Cappuccini di Palermo. Per la loro realizzazione abbiamo utilizzato degli scheletri a grandezza naturale (di uso medico), che sono stati truccati da Matteo Arfanotti, un campione di body painting, digitalizzati e in seguito animati.


E le musiche, che ruolo giocano nel tuo film?


Hanno un valore drammaturgico, di punteggiatura della storia, non sono solo un sottofondo. Il tema di Alfonso, ad esempio, è un tema che si ripete nelle dieci giornate ma si arricchisce di variazioni differenti, perché differenti sono le avventure che lui vive. Ho lavorato con Alessandro Sironi per la realizzazione della colonna sonora e sono state da lui composte delle musiche barocche romantiche, mentre per la parte cantata abbiamo scelto di avvalerci di cantanti liriche, di cori e di una cantante argentina contemporanea.





INTERVISTA AL PRODUTTORE PINO RABOLINI

Si definisce un “apprendista produttore”, ma la sua storia di imprenditore è ricca di esperienza e affonda le sue radici in un’altra arte, quella del gioiello. Ce la vuole raccontare brevemente?

La mia storia di imprenditore è molto semplice. Mio nonno materno, era un orafo. Figlio di un disegnatore di tessuti, tra le due guerre ha inventato un modo nuovo di realizzare fedi matrimoniali e ha fatto fortuna. Nel Dopoguerra, mio padre ha messo su una piccola ditta all’ingrosso a Milano, dove vendeva le fedi matrimoniali del suocero, più altri gioielli della tradizione milanese. Era l’attività di famiglia: acquistare dai migliori laboratori di Milano e dal nonno questi prodotti, per venderli ai negozi di gioielleria.


Qual è stata la sua formazione?


Sono soprattutto un autodidatta. Ho lasciato gli studi da giovanissimo e studiando la sera sono diventato ragioniere. Per 10 anni ho lavorato con mio padre nella ditta grossista di distribuzione del gioiello, poi ho sentito il desiderio di fare come mio nonno materno e di diventare a mia volta un produttore. Dopo aver letto un’intervista di Pierre Cardin, inventore del prêt-à-porter, ho iniziato a maturare una visione nuova del gioiello. Nel mio settore c’era infatti l’alta gioielleria e l’orificeria industriale, ma non c’era un marchio di gioielli prêt-à-porter. Così l’ho inventato: ed è nato Pomellato. Dopo 25 anni sono arrivati Dodo e la seconda linea per i giovani. E sono passati 50 anni.


Com’è approdato al cinema?


Ho sempre avuto passione per il teatro e per il cinema. Credo di essere una delle persone della mia generazione a Milano che ha visto più pièce teatrali in assoluto. Ero abbonato alle prime del Piccolo Teatro e andavo a vedere alcune rappresentazioni anche tre volte. Al cinema vedevo i film di Ejzenštejn, Fritz Lang, Ingmar Bergman e tanti film neorealisti. Una buona parte di quello che so oggi lo devo al teatro e al cinema. E già all’epoca pensavo che sarebbe stato bello produrre un film.


Un film che ha amato?


The Blues Brothers, ma il mio regista preferito è Federico Fellini, di cui ammiro la fantasia, l’immaginazione e la creatività. Di un regista, infatti, amo la capacità di dare vita a un’opera propria, di essere soggettista oltre che regista.


Veniamo ad Agadah. Come ha conosciuto Alberto Rondalli e cosa l’ha spinto a produrre il suo film?


Ho incontrato Alberto tramite degli amici del teatro Tascabile di Bergamo. Insieme abbiamo realizzato un piccolo documentario di 80 minuti su dei ragazzi che in una trasferta scolastica
si uniscono al Teatro Tascabile di Bergamo e recitano insieme agli attori professionisti. È stata in quell’occasione che ho saputo che aveva qualcosa nel cassetto. Quando in un secondo momento ci siamo confrontati ho saputo del suo progetto. Agadah ha qualcosa di misterioso e di segreto che mi ha subito affascinato. È un film in cui emerge tutta l’ingenuità dell’uomo che crede di poter interpretare la realtà e alterna momenti di comicità, di ironia, di fantasia e di sogno che mi hanno subito colpito. Inoltre è un film con un forte carattere filosofico- esistenziale, perché affronta il tema universale del perché siamo al mondo. Infine ho amato molto la ricchezza di citazioni iconografiche: veri quadri dentro alle inquadrature. Ho rintracciato in alcune scene immagini di Caravaggio, di Mantegna, di Ingres, di Hopper. La scena in cui Caterina Murino è vicino alla testa di Alessandro è un vero Caravaggio.


C’è stata qualche ingerenza da parte sua a livello creativo, nella scelta del cast o delle location?


No assolutamente. Gli ho dato piena libertà e totale carta bianca su tutto.


Quali sono le location in cui è stato girato il film?


Abbiamo girato in Puglia e in Basilicata, dove ci sono le gravine e le masserie fortificate. Poi nel Lazio e nel Bergamasco dove si trovano le ville storiche.


Quali sono stati i tempi di realizzazione?


Poco meno di due anni: abbiamo iniziato le riprese il 7 settembre del 2015. Per me un tempo giusto, considerando che è un film in costume, complesso e con tanti personaggi.


E ha avuto delle difficoltà? E cosa ha imparato da questa esperienza?


No, nessuna difficoltà. Ho imparato ad avere fiducia. Quando Alberto mi ha presentato il suo gruppo di lavoro, ho sentito che avevo a che fare con persone valide e ho lasciato fare perché sapevo che tutti sarebbero stati all’altezza del loro ruolo e non avrebbero tradito le aspettative. Anche nel mio settore da imprenditore, dopo tanti anni, ho lasciato fare e credo che questa mia capacità sia una dote non comune a tutti.


E da neo produttore qual è il suo sguardo sulla realtà cinematografica italiana?


Non mi sento ancora un produttore. Sono un apprendista stregone che ogni giorno cerca di assorbire qualcosa, come una spugna, ma ho trovato il mondo del cinema fantastico, pieno di persone meravigliose e di alta professionalità. La prima impressione da imprenditore che viene da un campo in cui il dettaglio e la precisione sono molto importanti, è stata quella di un certo caos. Poi, quando si comincia a girare il caos svanisce e diventa perfezione. E questa magia mi ha molto affascinato. Quando farò un altro film, allora mi sentirò un neo produttore e potrò dirle di più.


C’è già in cantiere un altro film?


Sì, con Alberto Rondalli ci stiamo già pensando.

E da spettatore che rapporto ha con il cinema di oggi?


Continuo ad amare il cinema. Vedo 15-20 film all’anno, soprattutto al cinema Anteo di Milano dove mi reco abitualmente. Vedo un po’ di tutto, ma scelgo soprattutto film che trattano temi che mi interessano, che affrontano questioni sociali, esistenziali e sociologiche.


Da spettatore e da produttore, cosa ne pensa delle dichiarazioni del presidente della Giuria dello scorso Festival di Cannes e regista Pedro Almodovar secondo cui non si può premiare un film che non è destinato alla sala?


Sono d’accordo perché penso che i film debbano essere pensati e destinati alle sale. E apprezzo che la nuova legge sul cinema preveda finanziamenti e aiuti per chi ristruttura o apre una nuova sala, soprattutto nei paesi piccoli. Ogni comune dovrebbe avere il suo “cinematografo”, il suo “cinema paradiso”.


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